Science to business in Italia: la difficoltà iniziale

Una interessante meditazione di Angelo Bonomi sulla necessità di una maggiore vicinanza
tra la Ricerca universitaria e il tessuto delle PMI. 

di Angelo Bonomi

Pubblicato sul n. 15 di MAIN News.

Il maggiore bisogno d’innovazione tecnologica e di relazioni tra industria e università, in particolare nel caso della PMI, è in Italia percepito essenzialmente come necessità di maggiori fondi per la ricerca come risposta a questi bisogni. Senza evidentemente negare il bisogno di aiuti alla ricerca, la soluzione proposta, che considera solo l’aspetto finanziario del problema, non tiene conto della realtà del processo science to business in Italia e corre il rischio di dare risultati molto minori delle attese. Occorre considerare prima di tutto alcune differenze tra l’Italia e molti altri paesi industrializzati e che riguardano la formazione universitaria e la struttura industriale. In Italia, a differenza di molti paesi industrializzati, non ha separato la formazione universitaria scientifica e tecnologica dalla formazione universitaria generale, ostacolando un approccio imprenditoriale ai risultati scientifici sfruttabili per nuove tecnologie. D’altra parte la struttura industriale del Paese è costituita principalmente da PMI, che, pur essendo innovative e leader in molti mercati, fanno poca R&S e le loro innovazioni mancano di quel grado di radicalità che sarebbe necessario a medio o lungo termine per competere con l’avanzamento di paesi emergenti che invece investono molto di più nella R&S. Una maggiore collaborazione con l’università potrebbe risolvere questi problemi della ricerca aumentando la radicalità e quindi la competitività delle loro innovazioni. Il processo di science to business in Italia affronta tutta una serie di difficoltà nel fare e sviluppare impresa ma vi è una difficoltà iniziale poco conosciuta riguardante lo sfruttamento tecnologico dei risultati della ricerca scientifica.

Copia di fig Bonomi

Si tratta di un’attività, conosciuta nell’ambiente universitario europeo come terza missione,  ma integrata già da molto tempo nelle università americane. La differenza con l’Europa riguarda l’attitudine imprenditoriale verso la ricerca che non consiste necessariamente nel trasformare un ricercatore in un imprenditore ma avere una visione imprenditoriale dei risultati.  Studi mostrano i limiti di questa visione nei ricercatori europei  e ancor di più in quelli italiani che in maggioranza considerano il loro lavoro un fatto culturale, e non che la ricerca scientifica possa essere anche un servizio per l’umanità. Si ha quindi una grande attività di ricerca a fronte di un numero molto limitato di brevetti e start up. Ora studi ed esperienza mostrano come sia necessario un grandissimo numero di idee innovanti affinché statisticamente si generi una nuova tecnologia con buoni ritorni d’investimento e un valido impatto socio-economico. Siamo quindi di fronte a un problema di mentalità che si può risolvere solo sul piano generazionale da cui l’attenzione che dovrebbe essere rivolta ai giovani ricercatori in tesi, o con contratti di ricerca a tempo determinato, con sbocchi limitati nella carriera universitaria, ma che potrebbero essere formati anche per la ricerca industriale e le start up. In effetti l’idea diffusa che la competenza nella ricerca scientifica corrisponda automaticamente a una competenza nella R&S è illusoria, nella R&S entrano in gioco complessi fattori socio-economici che non sono presenti nella ricerca scientifica e che bisogna gestire per portarla al successo.  Senza un’offerta formativa per ricercatori anche in questa direzione un semplice aumento degli aiuti per l’innovazione rischia di essere il classico elefante che partorisce un topolino dove una bassa generazione di idee innovanti, per l’elevatissima naturale selezione dei progetti, porterà a un impatto socio-economico trascurabile per il Paese.